Come si svolge un primo colloquio psicologico?
Il primo incontro è un momento importante, per certi versi delicato, gravido di aspettative e di pensieri, mosso da emozioni diverse e da un certo grado di incertezza per il paziente, come pure per il terapeuta.
Ogni paziente può porgere una o più domande in questa fase e alla fine del suo racconto può chiedere: Che cosa mi consiglia? Che devo fare?
Nei primi incontri di consultazione psicologica è molto importante dedicare tempo e attenzione al problema attraverso un atteggiamento di ascolto, accogliente e non giudicante, per esplorare in modo approfondito ciò che si è fatto in passato e nel presente per risolvere la situazione di difficoltà, individuare le necessità e analizzare le risorse disponibili o potenziali. È importante per me comprendere se e come posso aiutare attraverso il mio lavoro, o se invece sia più indicato un invio o una consulenza da parte di un collega.
Ogni trattamento psicoterapeutico è specifico e richiede alle volte uno sguardo più ampio, a carattere sistemico, che tenga conto della complessità delle situazioni di vita. Nel rispetto della normativa che regola la privacy e secondo la deontologia professionale, la psicoterapia - secondo le necessità evidenziate durante il trattamento - può dialogare anche con il lavoro di altri professionisti della salute mentale, ad esempio avvalendosi della consulenza di un medico psichiatra per la problematica e la sintomatologia espresse dal paziente. Può essere utile confrontarsi con psicoterapeuti familiari per aspetti legati al ciclo di vita della coppia o della famiglia. Può entrare in rapporto con il lavoro svolto dal medico di medicina generale, il medico omeopata o il pediatra o altre figure significative per il paziente.
Quali aspetti sono trattati in una psicoterapia junghiana?
L’analisi junghiana si occupa della diagnosi e del trattamento delle sofferenze emotive.
Jung rintraccia nel percorso terapeutico diverse finalità ed ha indicato quattro possibili stadi nel trattamento, ognuno con uno scopo preciso che ha chiamato rispettivamente “confessione”, “chiarificazione”, “educazione” e “trasformazione” (I problemi della psicoterapia moderna, 1929).
La creazione di una buona relazione di fiducia e di alleanza tra paziente e terapeuta rappresenta una solida base per considerare sia gli aspetti della vita problematici che l’analisi dei contenuti inconsci, i quali potranno essere esaminati, elaborati e integrati con un nuovo senso nella biografia personale e familiare del paziente. Questa prima parte del lavoro terapeutico promuove in genere un diverso adattamento alla vita, un cambiamento a livello personale, nella qualità delle relazioni e può riferirsi a ciò che Jung indicava come la fase analitico-riduttiva del trattamento. La trasformazione diviene l’obiettivo del quarto stadio dell’analisi, un vero e proprio lavoro creativo a cui dedicarsi in genere nella seconda fase della vita e che opera per la trasformazione della personalità nella consapevolezza di sé e delle relazioni.
C.G. Jung diede il nome di Individuazione a questo processo che si attua nel divenire della nostra vita e che è anche il compito principale della fase sintetico-creativa in analisi verso l’interezza della personalità.
L’individuazione è la percezione della propria unica realtà psicologica, sia delle proprie potenzialità che dei propri limiti, come sottolinea anche Marie-Louise von Franz, allieva e poi collaboratrice di C.G. Jung. È dunque un tema centrale nel pensiero junghiano.
La psicologia del profondo è una nuova via alla conoscenza di sé?
Nel 1943 in un dialogo con Jolande Jacobi, a questa domanda Jung rispose: “Si, la psicologia del profondo va definita come una nuova via, perché in tutti i metodi praticati finora non si è tenuto conto dell’esistenza dell’inconscio; con quest’ultima è entrato nel nostro campo d’indagine un fattore nuovo, che ha sostanzialmente complicato e radicalmente modificato la situazione. Prima infatti non si era messo in conto che l’uomo è un essere «duplice»; un essere che ha un lato conscio, di cui è a conoscenza, e un lato inconscio, di cui non sa nulla e che però non necessariamente è celato agli altri. Quante volte si fanno un sacco di «storie» di cui non si è affatto consapevoli, che però gli altri sono in grado di vedere e percepire molto bene? L’uomo vive come colui, la cui mano non sa cosa fa l’altra. Riconoscere che dobbiamo fare i conti con l’esistenza di un inconscio è un fatto di importanza rivoluzionaria. La coscienza come istanza etica vige solo nell’ambito della consapevolezza. Ma dove non è consapevole, l’uomo può fare le cose più strane e più tremende senza rendersene conto e senza il mimino sentore di ciò che sta facendo. L’agire inconscio sembra sempre ovvio e perciò esclude sempre l’esame critico. Si è quindi stupiti dell’incomprensibile reazione degli altri, e inoltre se ne attribuisce loro la responsabilità, vale a dire, non si sa cosa si sta facendo e per ogni conseguenza delle proprie azioni si cercano le cause negli altri. A questo proposito i matrimoni offrono esempi molto istruttivi di come sia frequente vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma non la trave nel proprio. Le proiezioni sono presenti in misura molto maggiore, anzi addirittura paurosa, nella propaganda di guerra, dove tutti i più deplorevoli vizi della vita civile sono elevati a norma di comportamento. Il fatto di non voler vedere i nostri errori e di proiettarli sugli altri è all’origine della maggior parte dei conflitti ed è la più solida garanzia che ingiustizia, odio e persecuzioni non scompariranno tanto in fretta. Finché si è inconsapevoli di sé stessi, spesso non ci si accorge nemmeno dei propri conflitti.
Si ritiene addirittura impossibile l’esistenza di conflitti inconsci. Del resto, ci sono molti matrimoni in cui si evita con la massima cura qualsiasi eventuale conflitto, laddove l’uno crede veramente di essere immune a questo genere di cose, mentre l’altro partner è dentro fino al collo nei suoi complessi faticosamente repressi e ne è quasi soffocato. Una situazione del genere però ha spesso effetti dannosi sui bambini. Sappiamo che i bambini non di rado fanno dei sogni che riguardano problemi inespressi dei genitori. Questi problemi pesano sui bambini, perché i genitori che ne sono inconsapevoli, non hanno mai cercato di riflettere sulle loro difficoltà, e questa situazione avvelena l’atmosfera familiare. Perciò anche le nevrosi infantili dipendono in gran parte dai conflitti dei genitori.”
Tratto da : “Un colloquio con C.G. Jung Sulla Psicologia del profondo e la conoscenza di se”, in Vol. 18 Opere, La vita simbolica, Bollati Boringhieri, p. 443 - 444.
Cosa sono i sogni?
L’idea di C.G. Jung sul sogno è che sia un prodotto naturale e davvero obiettivo della nostra psiche; un processo psichico che non è sottoposto al controllo della nostra volontà e che rappresenta “la vera realtà interiore così come è, non dunque come io la suppongo, o come il paziente vorrebbe che fosse, ma proprio come essa è”.
Il sogno rappresenta - dal punto di vista dell’inconscio – la situazione qual è.
In ognuno di noi vi è un altro, che noi non conosciamo e che ci parla attraverso il sogno, comunicandoci come egli ci veda diversamente da come ci vediamo noi. Per questo motivo, se ci troviamo in una condizione difficile e senza una via d’uscita, l’estraneo, l’altro, può talora fornirci una luce, che sarà meglio in grado di modificare radicalmente il nostro atteggiamento. (C.G. Jung)
Siamo fatti anche noi della stessa sostanza di cui son fatti i sogni. (W. Shakespeare)
L'anima umana quando sogna è nello stesso tempo interprete, pubblico e autrice della storia che sta vivendo e immaginando.
In che cosa consiste il lavoro sul sogno e sui sogni?
Rispondo a questa domanda, prendendo spunto da alcune considerazioni scritte molti anni fa da James Hillman:
“L’atteggiamento junghiano classico nei confronti del sogno è descritto molto bene da un’espressione che mi piace mutuare dall'analisi esistenziale… L'espressione è: “fare amicizia” con il sogno, trattarlo da amico. Parteciparvi, entrare nel suo universo di immagini, nel suo umore di fondo, desiderare di conoscerlo meglio, di comprenderlo, di giocarci e di conviverci, farsene carico e acquistarne dimestichezza con esso: come si farebbe con un amico. Acquistando dimestichezza con i miei sogni, mi familiarizzo con il mio mondo interiore. Chi vive dentro di me? Quali sono i miei paesaggi interiori? Che cosa è ricorrente, cioè continua a ritornare per abitare in me? Sono animali e persone, luoghi e temi che richiedono la mia attenzione, la mia amicizia e confidenza.” (J. Hillman, Fuochi Blu, Adelphi - pag. 352)
Dare ascolto a quelle parole o quelle immagini che catturano la nostra attenzione o che inizialmente possono turbarci. Ognuno può farsi amico del sogno.
Scrivere i propri sogni, rappresentarli promuove un lavoro personale, riflessivo e la cura di sé.
Cosa è un ricordo congelato nel tempo?
Alle volte ricordare un’esperienza può essere doloroso mentalmente, nel corpo e nell’anima, in un modo molto simile al momento in cui è accaduta, ed è stata attraversata per la prima volta. In una memoria traumatica le immagini, le sensazioni fisiche o la percezione di suoni, di odori o di parole non si sono modificati, è come se fossero indelebili o isolate da un contesto. La capacità di tollerare il ricordo senza provare dolore mentale o fisico è indice di guarigione e risoluzione. In base ai risultati delle ricerche neuroscientifiche, l’EMDR è in grado di attivare i funzionamenti mentali naturali, come quando sogniamo o si è nella fase del sonno REM.
la verità in condizioni difficili ottiene lo scopo di penetrare nel cuore della situazione. E solo quando si è divenuti intimamente padroni di una situazione che si riesce naturalmente ad aver successo nelle azioni che si esplicano esternamente.
(D.M. Kalff, Il Gioco della sabbia e la sua azione terapeutica sulla psiche, OS, pag. 97-98)